domenica 28 aprile 2024

Vito Mancuso: un esperto di vita interiore


Su Vito Mancuso ho scritto un commento non molto tempo fa. Purtroppo le pagine Facebook traboccano dei suoi pensieri, ed io posso superare lo choc che mi provocano solo commentandoli. I due passi che seguono mi hanno causato una seria allergia.

DISPOSIZIONE INTERIORE

"Il secondo risultato del lavoro interiore a custodia del nostro vuoto è la libertà. In particolare, la forma più preziosa di libertà: quella da se stessi. Tale libertà si manifesta nel comprendere che i nostri problemi hanno la loro radice per la gran parte dentro di noi, e non fuori di noi, come invece è portata d’istinto a pensare la mente ordinaria per la quale è sempre «colpa degli altri». A tale acquisizione però è possibile arrivare solo a patto di essere in grado di distaccarsi da sé e di oggettivarsi, facendo nascere in sé una sorta di dualità: da un lato un io soggetto che vede, dall’altro un io oggetto che è visto. Ed è esattamente in questo distacco di sé da sé che consiste la disposizione che io denomino libertà interiore".

IL LAVORO INTERIORE
«Se è vero, come osservava Pascal, che tutta l’infelicità degli uomini deriva dal non sapersene restare tranquilli in una camera, allora è altrettanto vero che la via della felicità consiste nell’imparare a starsene tranquilli nella propria camera. Ovviamente nella propria camera come avveniva nel passato, senza cellulare, computer, TV e altri dispositivi che trasportano la mente in giro per il mondo o peggio il più delle volte nella mente degli altri. Saper stare tranquilli in questo modo nell’autentica solitudine non è però per nulla facile e richiede un lavoro, quel tipo di lavoro su di sé che io chiamo lavoro interiore e che consiste in un intreccio di educazione spirituale, di analisi psicologica, di studio rigoroso e di disciplina etica. Il suo fine è l’adempimento del precetto delfico: «Conosci te stesso». O anche di quest’altra aurea massima dell’antica sapienza classica: «Dimostra di sapere chi sei». Il lavoro interiore ci mette in condizione di dimostrare a noi stessi chi siamo veramente, di conoscere qual è il nostro vero desiderio, di individuare la nostra passione dominante, di scoprire il nostro tesoro più prezioso».

Esiste da sempre dentro di noi un io che osserva l'altro io che agisce, e questa cosa si chiama semplicemente 'coscienza'. Ma a Mancuso piace arzigogolare per sembrare un filosofo vero. Fatto salvo il peso condizionante della Natura, considero una stupidaggine per niente originale questa sua affermazione: "Tale libertà si manifesta nel comprendere che i nostri problemi hanno la loro radice per la gran parte dentro di noi, e non fuori di noi, come invece è portata d’istinto a pensare la mente ordinaria per la quale è sempre «colpa degli altri". Questa è una interpretazione psicoanalitica che può reggere solo tra divani e poltrone di un salotto. Applicata alla vasta realtà in cui siamo immersi e che noi stessi costituiamo, si rivela come un antico e subdolo tentativo di nascondere coloro che ci opprimono.

Mancuso vende aria fritta. Il generico lavoro interiore che lui propone è un diversivo per non dire che oggi la nostra vera tragica condizione è di essere sommersi da valanghe di notizie false, che finiscono con il falsare la nostra intera vita, esteriore e interiore. Il nostro vero compito, che non è poi soltanto interiore, è di smascherare i falsari che ci avvelenano, al servizio dei Poteri Occulti e/o Costituiti, e di cercare la verità dei fatti. Senza la verità dei fatti, ricostruita con senso critico, il 'mondo interiore' che piace a Mancuso è solo una informe palude. Pascal qui non c'entra niente e viene tirato in ballo unicamente per puntellare un ragionamento che non sta in piedi.

mercoledì 24 aprile 2024

Carlo Levi (1902-1975). L'Orologio. Einaudi, 1974

Questo secondo romanzo di Levi è molto diverso dal “Cristo si è fermato a Eboli”, eppure non lo contraddice, anzi mi pare che sia la sua continuazione e il suo sviluppo. Anche qui l’ispirazione dello scrittore nasce da un atteggiamento particolarissimo: una profonda serenità d’animo, una curiosità viva per tutti gli aspetti della vita e del mondo, una tempra morale che non ha niente di ideologico e di politico in senso stretto, niente di artificioso, ma è una espressione immediata e spontanea di sensibilità fisica e nervosa e di sentimenti educati dal gusto estetico e da una libera cultura. La chiave per la comprensione del romanzo si trova a metà del libro. Una sera, all’ora del tramonto, pochi mesi dopo la fine della guerra, Carlo Levi passeggia per le strade di Roma, osservando le strade strette, le piccole piazze, i vicoli, le botteghe, i palazzi, “le finestre abitate da figure silenziose, e il passaggio continuo della gente, dei loro visi brillanti nella penombra, dei loro occhi neri, fra l’onda delle voci, dei sussurri, dei richiami”. Levi cammina per Roma “come sospinto e accarezzato da quella vita luminosa che pareva legare gli uomini e le case, che avvolgeva le persone e i palazzi, entrava per le porte aperte nelle botteghe, seguiva le donne su per le scale, e si inarcava sulle nostre teste, nel cielo popolato di uccelli”. Arriva in una piazza dove era montato un piccolo teatrino di marionette che dava spettacolo davanti a una folla. “Uomini, donne, vecchi, bambini, operai in abito da lavoro, venditrici di sigarette, raccoglitori di mozziconi, mendicanti, giovanotti con i capelli lucidi, ragazze con le pelliccette corte, vecchie sdentate, soldati, impiegati, guardavano intenti; e tutti i visi erano aperti, senza segreti, abbandonati a un incanto felice. E anch’io, in mezzo a quel gruppo di uomini sconosciuti, mi sentivo invadere da un senso improvviso di gioia”. Levi conclude questa scena con alcune poetiche considerazioni di antica ed elementare saggezza, che io tralascio per brevità. I signori di quella critica letteraria che dettava legge nel dopoguerra non potevano apprezzare un atteggiamento segnato, a parer loro, da un dolciastro sentimentalismo piccolo-borghese, così lontano dalla metallica e meccanica coscienza di classe, e ne dettero giudizi molto limitativi. Un sentimento di virile umanità è dunque lo stato d’animo costante dello scrittore: curioso, aperto, fraterno, ma anche acuto e penetrante e, all’occasione, severo; questo è l’occhio con cui Levi osserva il mondo e racconta le vicende a cui assiste e quelle che rievoca, vissute a Firenze, Milano, Torino, in Francia. "L’Orologio" è una sorta di viaggio nell’Italia dell’immediato dopoguerra e fra gli italiani di tutte le condizioni, che si arrabattano per sopravvivere. Levi incontra decine di personaggi e li descrive puntigliosamente con una efficace esagerazione visionaria da romanzo sud-americano. Ogni tanto, in questa traversata, breve nel tempo oggettivo ma lunghissima nel tempo mentale, Levi intreccia alle vicende reali i propri ricordi d’infanzia; quindi non è solo un testimone, ma è anche un personaggio. "L’Orologio" non ha un vero centro, ma è un fluire continuo di situazioni, di figure e di luoghi, che potrebbe durare, invece che pochi giorni, parecchi mesi. La crisi del Gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, pur con il significato drammatico che gli viene attribuito, è solo l’episodio più importante di questo viaggio, ma non l’anima del romanzo. I critici che hanno considerato la descrizione di quella crisi politica come l’unico scopo del romanzo hanno operato una forzatura, che ne limita la comprensione e porta a sottovalutarne il valore. La conseguenza è stata questa: messo quel fatto politico al centro del libro, hanno trovato poi che l’attenzione datagli da Levi non era sufficiente. Walter Binni, per esempio, recensendo il romanzo nel 1951, scriveva che “più chiari devono essere i centri d’interesse del suo narrare”; e tutte le scene di genere in cui Levi si trova coinvolto (in pratica, almeno due terzi del romanzo) le considerava come decorative “tentazioni laterali” e puro “divertimento, leggermente snobistico e accademico insieme, di macchiette abilissime e svagate”. A Carlo Levi Binni chiedeva “meno cronaca e più storia, meno figure della realtà e più realtà trasfigurata”. Ma questo giudizio apodittico è solo un gioco di parole: nel romanzo la storia non manca e non mancano giudizi storici trasfigurati in situazioni concrete. Mario Alicata, critico letterario divenuto dirigente del vecchio PCI, pur riconoscendone la qualità artistica, rimproverava a Carlo Levi le sue spiegazioni metafisiche e non storicistiche della miseria contadina, e desiderava “vederlo schierato su posizioni più esatte e più utili alla causa del Mezzogiorno”. Questa volontà di controllo sugli intellettuali una volta si chiamava zdanovismo (dall’ideologo sovietico Andrej Ždanov): una parola che è diventata poi un insulto, anche se, sotto altre bandiere, oggi più che mai si pratica una identica ottusa censura. Di Luigi Russo ho riportato qualche giudizio nel mio commento a “Cristo si è fermato a Eboli”. Ma ora colpisce, al di là degli stili diversi, la sua consonanza con gli altri critici. “Difetta nell’autore una profonda fede politica... Un libro, questo, che fa esclamare che anche Carlo Levi si è fermato a Eboli, ed ha avuto paura di proseguire nel suo cammino ed è rimasto a gingillarsi con le sue donne e con le sue infinite virtù di pittore facile e felice”. Quanta supponenza nel grande critico siciliano! Quando descrive i politici, Levi fa dei ritratti non più visionari e barocchi, bensì asciutti e ironici. Il ministro Tempesti (che è il comunista Emilio Sereni), a Napoli, a una festa di partito, sorride bonario e autorevole, risponde agli applausi, distribuisce fraterne pacche sulle spalle, dà risposte precise e indiscutibili, “voltandosi e piroettando su se stesso senza fatica come una trottola, parlando senza noia, efficiente, popolare e meccanico”. Con Emilio Sereni e con il ministro Colombi (il democristiano Attilio Piccioni), Levi viaggia in auto da Napoli a Roma e ascolta la loro conversazione: “eterne formule, eterni discorsi”. La caduta del Gabinetto Parri non li preoccupava. I due ministri erano molto comprensivi l’uno verso l’altro. “Purché fosse continuata l’unità dei grandi partiti di massa, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi... Non c’era adesso che un problema: restaurare l’autorità dello Stato. Bisognava liberarsi di certi residui anacronistici della Resistenza”. A pochi mesi dalla fine della guerra, già si pensava a mettere la Resistenza in naftalina per gestire insieme il potere. Di questo dettaglio storico i critici summenzionati non si sono accorti. Un’altra pagina fondamentale di storia, degna di un grande scrittore russo, è il lungo discorso di Ferrari, letterato, ex partigiano, per necessità ora impiegato in un Ministero. “Un Ministero. Voi non sapete che cos’è un Ministero. Nessuno lo sa, se non ci sta dentro. Non è neanche immaginabile. E’ un mondo sconosciuto, sotterraneo e infernale. E’ la raccolta miracolosa di tutte le miserie, di tutti i vizi, di tutte le bassezze; una coltura pura di miserabilità... E’ una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia... La loro [degli impiegati e funzionari] sola attività è di impedire che qualcosa di nuovo avvenga... Ora c’è la crisi di governo: vedeste al Ministero, tutti quegli impiegati d’ordine di terza classe, quei minutanti, quegli applicati, come si fregano le mani, si strizzano l’occhio, si danno manate sulle spalle! Ciascuno di loro sente di avere, personalmente, contribuito, ora per ora, a rovesciare il governo, che aveva avuto il coraggio o il programma, o la pretesa o la speranza di cambiare qualcosa... Non riusciremo a salvare il governo della Resistenza...”. Ad ascoltare il discorso di dimissioni di Ferruccio Parri, al Viminale, sono presenti tutti i vecchi politici. “Dei vecchi, strani animali preistorici, stavano sdraiati con sussiego sui loro scranni, avvolti in una atmosfera di rispetto coagulato. Avevano saputo durare, indifferenti come pietre agli avvenimenti, o secondandoli appena, accennando col capo a muoversi con quelli, pur restando fermi; nascondendo i vecchi visi sotto le maschere barbute, aspettando in letargo ma pieni di ambizioni nascoste, la loro ora... Era un bel giorno, un giorno di vittoria, anche per loro. Il solo problema era quello di saper far durare ancora la propria lunga vita, di non morire, ora che ci sarebbe stato bisogno di loro, che ci si sarebbe rivolti alla loro supposta saggezza, frutto di così meravigliosamente lunga e ripetuta insipienza, per salvare il Paese e lo Stato...”. Io credo che solo qualche pagina di Pasolini abbia raggiunto il livello di questa grande prosa. I fatti concreti dunque non mancano nel romanzo di Levi, e i giudizi storici, lungi dall’essere espressi in forma di “discorsi raziocinanti, più cerebrali che appassionati” (come sosteneva Walter Binni), sono trasfigurati poeticamente in persone, corpi, atteggiamenti, scene di genere, interni di case, paesaggi, perché la poesia qui è dappertutto.

mercoledì 3 aprile 2024

Carlo Levi (1902-1975). Cristo si è fermato a Eboli. Einaudi, 2005

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Il Cristo di Carlo Levi a me sembra un libro solare, come può essere solare la descrizione di un paesaggio squallido o di una persona infelice fatta con la gioia di averne capito l’essenza e di essere riusciti a rappresentarla. Questa gioia estetica e morale, che deriva da una fondamentale serenità d’animo, non attenua minimamente la pena e la solidarietà che Levi sente per i contadini lucani, poveri denutriti e malati. Ma la pena e la solidarietà, di fronte a una così grande miseria, sono ancora – mi sembra – dei sentimenti facili e superficiali. La comprensione che  Levi ha di quei contadini passivi e sfruttati va ben oltre la pena. Egli scopre umanamente, cioè con il corpo e con i sentimenti, che quei contadini, che dai signori e dalle autorità del luogo “non erano considerati, veramente, degli uomini”, erano in tutto anch’essi degli esseri umani, e arriva a conoscere e apprezzare i loro valori, la loro intelligenza, la loro storia. “Il loro cuore è mite, e l’animo paziente”; e inoltre, non avendo i pregiudizi e la presunzione della mezza cultura, essi capiscono meglio e in modo più immediato  perfino le cose dell’arte. In Levi c’è, dunque, una luminosa serenità d’animo. In un punto del libro dice: “Mi pareva di essere entrato nel cuore del mondo”. E’ grazie a questa condizione spirituale che egli può assorbire, senza ignorarli, i drammi della vita quotidiana, interpretandoli alla luce di una cultura che va dalla Bibbia e da Montaigne fino ad una aggiornata analisi della piccola borghesia meridionale (“una classe degenerata, fisicamente e moralmente, che vive di piccole rapine”). Se non si tiene conto di questa speciale personalità, limpida e profonda, di Levi, sembra del tutto stravagante e incomprensibile lo stato d’animo che egli prova in casa di un moribondo, dove è venuto di notte per tentare di salvarlo. “La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché dunque una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove… Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza”. Sono sentimenti dannunziani, questi? A me non sembra. Eppure Luigi Russo, grande storico ma, secondo me, prigioniero di una cultura rigidamente ottocentesca, ha scritto sulla sua rivista “Belfagor” (1950) che in Levi c’è “l’interesse del decadente per la materia vergine e barbarica di certi paesi del Mezzogiorno, rivelatisi con stupore a un ingegno nordico che non sapeva nulla di quelle plaghe”; e il critico siciliano continua affermando che “quell’ingegno, pur uscito da una superiore civiltà, è portato perfino ad atteggiarsi come uno stregone, per aderire alla psiche di quei primitivi e a farsi loro provvisorio concittadino”. Senza far caso alla facile ironia (lo chiama anche “dilettante di genio” e “pittore facile e felice”), si potrebbero citare molti passi del Cristo per smentire questi giudizi di Russo. Ma preferisco correggere Russo usando le sue stesse parole. Mentre Carlo Levi, con tutto il suo presunto decadentismo e ignoranza dei problemi del Meridione, comprende  a fondo “l’avversità dei contadini per lo Stato, estraneo e nemico”, non si può dire la stessa cosa di Russo, quando parla dei contadini del Verga, che pure egli presume di comprendere. Il suo artificioso e freddo ottimismo risorgimentale gli fa scrivere nel saggio su Verga: “Gli scrittori provinciali [Verga, De Roberto, ecc.] scoprivano la loro più vera patria nella provincia [...] non già per reazione all’unitarismo politico trionfante, ma per la collaborazione più intima a quel movimento unitario, che non poteva e non doveva appagarsi di un livellamento giacobino delle varie regioni, ma che meglio si attuava là dove l’individualità delle regioni fosse più scoperta e consapevole”. Parole vacue e, direi, insensibili, che, proprio nel 1945, l’anno di pubblicazione del Cristo, furono contraddette, seppur in una forma prudente e generica, da un altro famoso storico della letteratura, Natalino Sapegno: “In Italia il verismo doveva proporsi come il frutto più maturo, in letteratura, del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle speranze vagheggiate, l’instabile equilibrio dell’unità raggiunta con mezzi in gran parte esterni, provvisori, effimeri; la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della libertà, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca…”. Quindi, non decadente ma autenticamente umanistica io definirei la cultura con la quale Carlo Levi guarda al mondo contadino di quell’epoca ormai lontana. E l’espressione più profonda e commovente di questo atteggiamento, fra tante descrizioni di paesaggio e ritratti indimenticabili, sono le prime righe del romanzo. Carlo Levi lo scrive a Firenze, in un rifugio clandestino, dal dicembre 1943 al luglio 1944, mentre la città è ancora occupata dai tedeschi.

“Sono passati molti anni, pieni di guerra… Spinto qua e là dalla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.



 

domenica 31 marzo 2024

Il professor Luciano Canfora come don Ferrante

Luciano Canfora, che ha definito Giorgia Meloni “neonazista nell’animo” e che per questo è stato querelato, fa dei ragionamenti molto sottili per giustificare quella definizione. Ma a me pare che la personalità politica della Meloni, più che dal nazismo, sia segnata dal camaleontismo. Lei era per l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, era contraria alle sanzioni alla Russia, contro la sudditanza agli Stati Uniti, estimatrice di Vladimir Putin, ma ora ha completamente rovesciato le proprie posizioni. A Canfora, a parte le sottigliezze dialettiche, non resta altro, per giustificare la sua definizione, che aggrapparsi a una ormai moderata contrarietà della Meloni all’immigrazione, spacciandola per xenofobia. Il professore, inoltre, si dichiara contento di poter esporre in tribunale le sue valutazioni politiche, perché, ha detto citando Gramsci, “la politica è il momento più alto della vita morale”. Ma il professore confonde la fantasia con la realtà, la teoria con la pratica, l’astratto con il concreto. Solo come concetto e come ideale, la politica è il momento più alto della morale. La politica di fatto, invece, è, quasi sempre, il suo momento più basso. Luciano Canfora, che ha scritto innumerevoli libri traendoli da altri libri (metodo aborrito da Schopenhauer e da tutti gli studiosi veramente originali), deve conoscere ben poco il mondo reale se pensa che queste sue polemiche professorali siano un momento alto della politica. Non per niente il professore dichiara che sarebbe contento se lo chiamassero “neostalinista nell’animo”, e per questo assomiglia a don Ferrante, il personaggio dei Promessi Sposi che, proprio a causa delle sue elucubrazioni erudite, disconosce la realtà e muore di peste maledicendo le stelle come un eroe di Metastasio.
 

domenica 24 marzo 2024

Renata Viganò (1900-1976). L'Agnese va a morire. Einaudi, 1975

Di questo libro ho letto l’edizione pubblicata da Einaudi nella collana ‘Letture per la scuola media’. Ma questa a me non sembra affatto una lettura adatta alla scuola media. E’ un romanzo troppo concentrato, troppo intenso, discretamente lento e noioso, che rivela le sue quasi nascoste qualità solo a condizione di una attenzione straordinaria e di una buona esperienza di lettore. A leggere il catalogo della collana, non si sfugge all’impressione che essa fosse ispirata da un orientamento progressista-velleitario che, nel concreto, non si curava affatto dell’educazione effettiva della gioventù.

La prosa di Renata Viganò è semplice, senza toni lirici e senza enfasi, ma il sentimento che la anima è così forte che molto spesso le parole più semplici diventano indimenticabili. La moglie (o la sorella) del partigiano Magòn appare nel romanzo solo per pochi attimi: “bella e sciupata", ed è subito una figura cara che resta impressa nel ricordo. Tre amici del marito fanno visita ad Agnese, donna cinquantenne solitaria, ruvida e scontrosa, dopo che i tedeschi glielo hanno portato via. “Buonasera, siamo venuti a trovarvi”, dice uno dei tre, con la commovente franchezza delle persone semplici. Un giovanotto (il figlio di Cencio) è riuscito a fuggire dal convoglio che deportava i paesani rastrellati dai tedeschi, ed è venuto a casa di Agnese a raccontare com'è morto il marito. Ogni volta che, dopo una pausa, riprende il filo del discorso, ricomincia con un commovente: “Dunque…”, come un cantastorie del popolo. Quando i partigiani cominciano a richiedere la sua opera, Agnese risponde sempre: “Se sono buona…”. Parole, queste, che non sono la risposta di una persona esitante e ritrosa, ma di una donna semplice che si offre totalmente per una causa per lei del tutto nuova, ma da lei sin dal primo momento sentita come giusta. La sensibilità della Viganò è in sintonia con quella delle persone semplici e trova sempre le parole adatte. “Non ci fate del male”, dice uno sfollato ai partigiani. E un giovane fascista catturato dai partigiani esprime così la sua paura e la sua speranza: “Mi lasciate andare?... Posso andare?". Tutti gli altri [partigiani], adesso, si erano alzati, e quel movimento spaventò il prigioniero". - Le descrizioni di paesaggio occupano la metà del libro, ed è sempre lo stesso paesaggio: palude, campagne allagate, canali, argini, strade polverose tra un villaggio e l’altro. Non c’è mai un paesaggio urbano. D’estate questo paesaggio è a volte amichevole,  e i partigiani sono allegri e si sentono quasi in vacanza, ma spesso è soffocante e insopportabile. Una ragazza, Rina, passa un breve tempo in una base di partigiani nella palude, dove sta il suo fidanzato. Sulla via di tornare in paese, “sentiva ancora sui capelli, sui vestiti, il fiato scialbo della palude, quel calore bagnato, quel sudore che non si asciugava mai […] Le pareva già di sentire il terreno sodo, battuto, la polvere bianca sotto le scarpe; e vedere case a destra, a sinistra, un mondo di vivi, dopo la morta larghezza della palude”. D’inverno, con la neve, i canali ghiacciati e il freddo rigidissimo, il paesaggio è un ostacolo in più. “Il Comandante, Clinto e ‘La Disperata’ tornarono nel pomeriggio, si trassero dietro un’ondata di freddo. Il cielo era lontano e sereno, il gelo si stabiliva nell’aria, era una cosa solida, luminosa, trasparente, che levava il fiato. Aveva un odore sano, sincero, l’odore delle pure sere d’inverno nei grandi spazi di campagna senza case, di acqua senza barche”. E ancora. “Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto”. “C’era una nebbia azzurra, un velo di seta lucente che vestiva gli scheletri degli alberi. La neve non cedeva sotto i passi: era una crosta liscia su cui scivolavano le scarpe come pattini. Si faceva fatica a stare in piedi”. - Gli invasori tedeschi sono sempre visti come esseri mostruosi. Mentre con gli italiani troppo tiepidi, troppo paurosi ed egoisti si può ancora discutere e litigare, coi soldati tedeschi non c’è alcuna possibilità di conciliazione, nessuna pietà: per loro c’è solo un odio mortale. “Un piccolo camion sbucò dalla strada, frenò sull’aia, i tedeschi saltarono a terra. L’aia, la campagna, il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva”. “Emerse poi la voce di un comandante, con uno di quei gridi rotti, inumani, invasati, che tutti al mondo riconoscono subito per tedeschi”. Un soldato tedesco che interrogava Agnese e Rina, e guardava le gambe della giovane donna, “ad un tratto si mise a ridere, ma solo con la bocca piena di denti di metallo, gli occhi rimasero gli stessi, fissi e liquidi come se fossero pieni d’acqua”. Le due donne, per ingraziarselo, gli offrono da mangiare. “La Rina lo guardava mangiare. Vedeva con gioia i grossi pezzi di pane, le fette rosse di salame cacciati dentro quella bocca larga e smorta, i sorsi di vino rovesciati in gola come in un buco aperto”.  - Il sentimento ispirato della Viganò crea scene semplicissime piene di suggestione. In un gruppo di donne, “una si voltò e disse: “Hanno preso anche mio marito, e poi Ivo, Silvio, il figlio di Cencio, Ottavio del mulino…”; ad ogni nome segnava una delle compagne, e tutte si misero a piangere con i fazzoletti sulla  faccia”. Questa scena a me sembra un potente quadro religioso. E in un altro luogo del romanzo c’è una scena che fa pensare all'Inferno di Dante. “Sull’argine passò un gruppo di uomini, circondati e spinti avanti dai tedeschi; dietro venivano delle donne piangenti, e pregavano e imprecavano”. - Se il suo giudizio sui soldati di Hitler è pesantissimo, la Viganò non si fa illusioni nemmeno sugli alleati americani e inglesi, che bombardano con disinvoltura e cinismo la popolazione civile. Viene distrutta la bella casa di Walter, che si trova in campagna, lontano dalle altre case. “Ma passarono gli aerei alleati, sopra, al ritorno dal bombardamento, e avevano qualche bomba rimasta. Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: “Scommetto che ci prendo in quella casa là”, - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: “Scommetto di no”. “Allora proviamo?”. “Proviamo”, e fissarono la posta in dollari o sterline”. Forse può sembrare un sarcasmo gratuito, questo della Viganò, ma la verità è che, dall'8 settembre 1943 alla fine della guerra, i bombardamenti anglo-americani hanno ucciso 38.939 civili (fonte Wikipedia). Mi sembra quindi un sarcasmo ben diretto e lungimirante e, per quel che ne so, del tutto isolato nel 1949, quando “L’Agnese va a morire” vinse il Premio Viareggio. Chissà se Antonio Caprarica, il giornalista anglofilo che si veste come Lord Brummell e che dichiara a ogni piè sospinto che noi dobbiamo essere riconoscenti agli americani perché ci hanno liberati, ha almeno sfogliato questo romanzo. Forse ignora che, in tutta la campagna d'Italia, i soldati americani morti sono stati solo 1400. Una "liberazione" veramente a buon mercato. - Per concludere. La Viganò non sa soltanto cogliere molte fuggevoli sfumature poetiche nelle azioni dei suoi personaggi, che pure sono individui elementari e, direi, appena abbozzati, ma rivela anche la capacità di narrare in modo vivo e drammatico, quando descrive, per esempio, i combattimenti contro i  soldati tedeschi. Alla fine del romanzo i nazisti prevarranno sulla esigua brigata di partigiani di cui la Viganò ha raccontato la vita difficile e l'ultimo sacrificio. "... Tutta la compagnia si lanciò lungo il pendìo, la prima scarica li colse a metà, non colpì nessuno, li arrestò solamente. Videro a un tratto i campi popolarsi di tedeschi, cappotti grigi in cerchio; nelle siepi, dietro gli alberi, dai fossi sorgevano gli elmetti tedeschi...". Quasi tutti i partigiani saranno sterminati.

martedì 19 marzo 2024

Luca Marcolivio. Contro Garibaldi. Quello che a scuola non vi hanno raccontato. Firenze, Vallecchi, 2011

 
 Il libro è solo un piccolo pamphlet giornalistico, un riassunto utile per il primo approccio. Il giudizio sintetico su Garibaldi è il seguente: "Tutti i suoi successi furono dovuti più al pragmatismo intuitivo, alla notevole forza fisica, a circostanze storiche favorevoli e a una smisurata ambizione che non a un'abilità da stratega che, erroneamente, gli è stata attribuita per decenni. Garibaldi non ebbe mai la stoffa dell'uomo politico, anche perché non ebbe mai idee politiche proprie, essendo sempre pronto a ricalibrarle a seconda della convenienza. Fu, in altre parole, l'emblema del trasformismo, un vero specialista nel 'salto della quaglia' ".