martedì 30 aprile 2024
domenica 28 aprile 2024
Vito Mancuso: un esperto di vita interiore
Su Vito Mancuso ho scritto un commento non molto tempo fa. Purtroppo le pagine Facebook traboccano dei suoi pensieri, ed io posso superare lo choc che mi provocano solo commentandoli. I due passi che seguono mi hanno causato una seria allergia.
DISPOSIZIONE INTERIORE
"Il secondo risultato del lavoro interiore a custodia del nostro vuoto è la libertà. In particolare, la forma più preziosa di libertà: quella da se stessi. Tale libertà si manifesta nel comprendere che i nostri problemi hanno la loro radice per la gran parte dentro di noi, e non fuori di noi, come invece è portata d’istinto a pensare la mente ordinaria per la quale è sempre «colpa degli altri». A tale acquisizione però è possibile arrivare solo a patto di essere in grado di distaccarsi da sé e di oggettivarsi, facendo nascere in sé una sorta di dualità: da un lato un io soggetto che vede, dall’altro un io oggetto che è visto. Ed è esattamente in questo distacco di sé da sé che consiste la disposizione che io denomino libertà interiore".
mercoledì 24 aprile 2024
Carlo Levi (1902-1975). L'Orologio. Einaudi, 1974
mercoledì 3 aprile 2024
Carlo Levi (1902-1975). Cristo si è fermato a Eboli. Einaudi, 2005
Il Cristo di Carlo Levi a me sembra un libro solare, come può essere solare la descrizione di un paesaggio squallido o di una persona infelice fatta con la gioia di averne capito l’essenza e di essere riusciti a rappresentarla. Questa gioia estetica e morale, che deriva da una fondamentale serenità d’animo, non attenua minimamente la pena e la solidarietà che Levi sente per i contadini lucani, poveri denutriti e malati. Ma la pena e la solidarietà, di fronte a una così grande miseria, sono ancora – mi sembra – dei sentimenti facili e superficiali. La comprensione che Levi ha di quei contadini passivi e sfruttati va ben oltre la pena. Egli scopre umanamente, cioè con il corpo e con i sentimenti, che quei contadini, che dai signori e dalle autorità del luogo “non erano considerati, veramente, degli uomini”, erano in tutto anch’essi degli esseri umani, e arriva a conoscere e apprezzare i loro valori, la loro intelligenza, la loro storia. “Il loro cuore è mite, e l’animo paziente”; e inoltre, non avendo i pregiudizi e la presunzione della mezza cultura, essi capiscono meglio e in modo più immediato perfino le cose dell’arte. In Levi c’è, dunque, una luminosa serenità d’animo. In un punto del libro dice: “Mi pareva di essere entrato nel cuore del mondo”. E’ grazie a questa condizione spirituale che egli può assorbire, senza ignorarli, i drammi della vita quotidiana, interpretandoli alla luce di una cultura che va dalla Bibbia e da Montaigne fino ad una aggiornata analisi della piccola borghesia meridionale (“una classe degenerata, fisicamente e moralmente, che vive di piccole rapine”). Se non si tiene conto di questa speciale personalità, limpida e profonda, di Levi, sembra del tutto stravagante e incomprensibile lo stato d’animo che egli prova in casa di un moribondo, dove è venuto di notte per tentare di salvarlo. “La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché dunque una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove… Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza”. Sono sentimenti dannunziani, questi? A me non sembra. Eppure Luigi Russo, grande storico ma, secondo me, prigioniero di una cultura rigidamente ottocentesca, ha scritto sulla sua rivista “Belfagor” (1950) che in Levi c’è “l’interesse del decadente per la materia vergine e barbarica di certi paesi del Mezzogiorno, rivelatisi con stupore a un ingegno nordico che non sapeva nulla di quelle plaghe”; e il critico siciliano continua affermando che “quell’ingegno, pur uscito da una superiore civiltà, è portato perfino ad atteggiarsi come uno stregone, per aderire alla psiche di quei primitivi e a farsi loro provvisorio concittadino”. Senza far caso alla facile ironia (lo chiama anche “dilettante di genio” e “pittore facile e felice”), si potrebbero citare molti passi del Cristo per smentire questi giudizi di Russo. Ma preferisco correggere Russo usando le sue stesse parole. Mentre Carlo Levi, con tutto il suo presunto decadentismo e ignoranza dei problemi del Meridione, comprende a fondo “l’avversità dei contadini per lo Stato, estraneo e nemico”, non si può dire la stessa cosa di Russo, quando parla dei contadini del Verga, che pure egli presume di comprendere. Il suo artificioso e freddo ottimismo risorgimentale gli fa scrivere nel saggio su Verga: “Gli scrittori provinciali [Verga, De Roberto, ecc.] scoprivano la loro più vera patria nella provincia [...] non già per reazione all’unitarismo politico trionfante, ma per la collaborazione più intima a quel movimento unitario, che non poteva e non doveva appagarsi di un livellamento giacobino delle varie regioni, ma che meglio si attuava là dove l’individualità delle regioni fosse più scoperta e consapevole”. Parole vacue e, direi, insensibili, che, proprio nel 1945, l’anno di pubblicazione del Cristo, furono contraddette, seppur in una forma prudente e generica, da un altro famoso storico della letteratura, Natalino Sapegno: “In Italia il verismo doveva proporsi come il frutto più maturo, in letteratura, del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle speranze vagheggiate, l’instabile equilibrio dell’unità raggiunta con mezzi in gran parte esterni, provvisori, effimeri; la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della libertà, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca…”. Quindi, non decadente ma autenticamente umanistica io definirei la cultura con la quale Carlo Levi guarda al mondo contadino di quell’epoca ormai lontana. E l’espressione più profonda e commovente di questo atteggiamento, fra tante descrizioni di paesaggio e ritratti indimenticabili, sono le prime righe del romanzo. Carlo Levi lo scrive a Firenze, in un rifugio clandestino, dal dicembre 1943 al luglio 1944, mentre la città è ancora occupata dai tedeschi.
“Sono passati molti anni, pieni di guerra… Spinto
qua e là dalla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta,
lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e
quando potrò mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è
grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli
usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra
senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella
lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della
morte”.
domenica 31 marzo 2024
Il professor Luciano Canfora come don Ferrante
domenica 24 marzo 2024
Renata Viganò (1900-1976). L'Agnese va a morire. Einaudi, 1975
Di questo libro ho letto l’edizione pubblicata da Einaudi nella collana ‘Letture
per la scuola media’. Ma questa a me non sembra affatto una lettura adatta alla
scuola media. E’ un romanzo troppo concentrato, troppo intenso, discretamente lento
e noioso, che rivela le sue quasi nascoste qualità solo a condizione di una attenzione
straordinaria e di una buona esperienza di lettore. A leggere il catalogo della
collana, non si sfugge all’impressione che essa fosse ispirata da un
orientamento progressista-velleitario che, nel concreto, non si curava affatto
dell’educazione effettiva della gioventù.
La prosa di Renata Viganò è semplice, senza toni lirici e senza enfasi, ma il sentimento che la anima è così forte che molto spesso le parole più semplici diventano indimenticabili. La moglie (o la sorella) del partigiano Magòn appare nel romanzo solo per pochi attimi: “bella e sciupata", ed è subito una figura cara che resta impressa nel ricordo. Tre amici del marito fanno visita ad Agnese, donna cinquantenne solitaria, ruvida e scontrosa, dopo che i tedeschi glielo hanno portato via. “Buonasera, siamo venuti a trovarvi”, dice uno dei tre, con la commovente franchezza delle persone semplici. Un giovanotto (il figlio di Cencio) è riuscito a fuggire dal convoglio che deportava i paesani rastrellati dai tedeschi, ed è venuto a casa di Agnese a raccontare com'è morto il marito. Ogni volta che, dopo una pausa, riprende il filo del discorso, ricomincia con un commovente: “Dunque…”, come un cantastorie del popolo. Quando i partigiani cominciano a richiedere la sua opera, Agnese risponde sempre: “Se sono buona…”. Parole, queste, che non sono la risposta di una persona esitante e ritrosa, ma di una donna semplice che si offre totalmente per una causa per lei del tutto nuova, ma da lei sin dal primo momento sentita come giusta. La sensibilità della Viganò è in sintonia con quella delle persone semplici e trova sempre le parole adatte. “Non ci fate del male”, dice uno sfollato ai partigiani. E un giovane fascista catturato dai partigiani esprime così la sua paura e la sua speranza: “Mi lasciate andare?... Posso andare?". Tutti gli altri [partigiani], adesso, si erano alzati, e quel movimento spaventò il prigioniero". - Le descrizioni di paesaggio occupano la metà del libro, ed è sempre lo stesso paesaggio: palude, campagne allagate, canali, argini, strade polverose tra un villaggio e l’altro. Non c’è mai un paesaggio urbano. D’estate questo paesaggio è a volte amichevole, e i partigiani sono allegri e si sentono quasi in vacanza, ma spesso è soffocante e insopportabile. Una ragazza, Rina, passa un breve tempo in una base di partigiani nella palude, dove sta il suo fidanzato. Sulla via di tornare in paese, “sentiva ancora sui capelli, sui vestiti, il fiato scialbo della palude, quel calore bagnato, quel sudore che non si asciugava mai […] Le pareva già di sentire il terreno sodo, battuto, la polvere bianca sotto le scarpe; e vedere case a destra, a sinistra, un mondo di vivi, dopo la morta larghezza della palude”. D’inverno, con la neve, i canali ghiacciati e il freddo rigidissimo, il paesaggio è un ostacolo in più. “Il Comandante, Clinto e ‘La Disperata’ tornarono nel pomeriggio, si trassero dietro un’ondata di freddo. Il cielo era lontano e sereno, il gelo si stabiliva nell’aria, era una cosa solida, luminosa, trasparente, che levava il fiato. Aveva un odore sano, sincero, l’odore delle pure sere d’inverno nei grandi spazi di campagna senza case, di acqua senza barche”. E ancora. “Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto”. “C’era una nebbia azzurra, un velo di seta lucente che vestiva gli scheletri degli alberi. La neve non cedeva sotto i passi: era una crosta liscia su cui scivolavano le scarpe come pattini. Si faceva fatica a stare in piedi”. - Gli invasori tedeschi sono sempre visti come esseri mostruosi. Mentre con gli italiani troppo tiepidi, troppo paurosi ed egoisti si può ancora discutere e litigare, coi soldati tedeschi non c’è alcuna possibilità di conciliazione, nessuna pietà: per loro c’è solo un odio mortale. “Un piccolo camion sbucò dalla strada, frenò sull’aia, i tedeschi saltarono a terra. L’aia, la campagna, il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva”. “Emerse poi la voce di un comandante, con uno di quei gridi rotti, inumani, invasati, che tutti al mondo riconoscono subito per tedeschi”. Un soldato tedesco che interrogava Agnese e Rina, e guardava le gambe della giovane donna, “ad un tratto si mise a ridere, ma solo con la bocca piena di denti di metallo, gli occhi rimasero gli stessi, fissi e liquidi come se fossero pieni d’acqua”. Le due donne, per ingraziarselo, gli offrono da mangiare. “La Rina lo guardava mangiare. Vedeva con gioia i grossi pezzi di pane, le fette rosse di salame cacciati dentro quella bocca larga e smorta, i sorsi di vino rovesciati in gola come in un buco aperto”. - Il sentimento ispirato della Viganò crea scene semplicissime piene di suggestione. In un gruppo di donne, “una si voltò e disse: “Hanno preso anche mio marito, e poi Ivo, Silvio, il figlio di Cencio, Ottavio del mulino…”; ad ogni nome segnava una delle compagne, e tutte si misero a piangere con i fazzoletti sulla faccia”. Questa scena a me sembra un potente quadro religioso. E in un altro luogo del romanzo c’è una scena che fa pensare all'Inferno di Dante. “Sull’argine passò un gruppo di uomini, circondati e spinti avanti dai tedeschi; dietro venivano delle donne piangenti, e pregavano e imprecavano”. - Se il suo giudizio sui soldati di Hitler è pesantissimo, la Viganò non si fa illusioni nemmeno sugli alleati americani e inglesi, che bombardano con disinvoltura e cinismo la popolazione civile. Viene distrutta la bella casa di Walter, che si trova in campagna, lontano dalle altre case. “Ma passarono gli aerei alleati, sopra, al ritorno dal bombardamento, e avevano qualche bomba rimasta. Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: “Scommetto che ci prendo in quella casa là”, - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: “Scommetto di no”. “Allora proviamo?”. “Proviamo”, e fissarono la posta in dollari o sterline”. Forse può sembrare un sarcasmo gratuito, questo della Viganò, ma la verità è che, dall'8 settembre 1943 alla fine della guerra, i bombardamenti anglo-americani hanno ucciso 38.939 civili (fonte Wikipedia). Mi sembra quindi un sarcasmo ben diretto e lungimirante e, per quel che ne so, del tutto isolato nel 1949, quando “L’Agnese va a morire” vinse il Premio Viareggio. Chissà se Antonio Caprarica, il giornalista anglofilo che si veste come Lord Brummell e che dichiara a ogni piè sospinto che noi dobbiamo essere riconoscenti agli americani perché ci hanno liberati, ha almeno sfogliato questo romanzo. Forse ignora che, in tutta la campagna d'Italia, i soldati americani morti sono stati solo 1400. Una "liberazione" veramente a buon mercato. - Per concludere. La Viganò non sa soltanto cogliere molte fuggevoli sfumature poetiche nelle azioni dei suoi personaggi, che pure sono individui elementari e, direi, appena abbozzati, ma rivela anche la capacità di narrare in modo vivo e drammatico, quando descrive, per esempio, i combattimenti contro i soldati tedeschi. Alla fine del romanzo i nazisti prevarranno sulla esigua brigata di partigiani di cui la Viganò ha raccontato la vita difficile e l'ultimo sacrificio. "... Tutta la compagnia si lanciò lungo il pendìo, la prima scarica li colse a metà, non colpì nessuno, li arrestò solamente. Videro a un tratto i campi popolarsi di tedeschi, cappotti grigi in cerchio; nelle siepi, dietro gli alberi, dai fossi sorgevano gli elmetti tedeschi...". Quasi tutti i partigiani saranno sterminati.